Nel segno del patto sulle opzioni
l´odissea di centinaia di sudtirolesi

Il 26 maggio 1940 si iniziava per 299 sudtirolesi, da poco passati dalla cittadinanza italiana a quella germanica per effetto dell´accordo Hitler-Mussolini sulle opzioni, il viaggio da Pergine per il loro definitivo trasferimento oltreconfine. Quanti potevano intendere erano in preda alla cosiddetta febbre della partenza, che comunque aveva contagiato anche gli altri in relazione agli sconvolgimenti della loro monotona esistenza già avvertiti nei giorni precedenti a causa dei preparativi per l´imminente evento. Il tempo primaverile e la prospettiva del viaggio concorrevano per tanto a determinare uno stato d´animo di gioiosa trepidazione. Non potevano certamente immaginare che la loro vita nella nuova patria era destinata ad una tragica odissea all´ombra della cosiddetta «operazione eutanasia».

I «viaggiatori» costituivano una consistente aliquota degli ospiti dell´istituto di Pergine Valsugana nel Trentino, che dal lontano 1882 accoglieva gli infermi di mente e gli handicappati psicofisici gravi della zona e della vicina provincia di Bolzano. Irrenanstalt Pergine A causa delle loro minorazioni, i ricoverati, nella grande maggioranza, non erano stati in grado di pronunciarsi personalmente sul quesito posto dall´accordo agli abitanti di lingua tedesca della regione. L´alternativa era fra l´Italia e la Germania: votando per quest´ultima, i sudtirolesi si impegnavano ad abbandonare in breve tempo la terra avita per una nuova esistenza nell´ambito del Terzo Reich, mentre il voto per l´Italia avrebbe comportato la perdita d´identità della minoranza con il suo assorbimento nel corpo nazionale di lingua diversa.

Ovviamente i vuoti destinati ad aprirsi nelle file della popolazione autoctona a causa dell´emigrazione oltreconfine di una sua cospicua parte sarebbero stati infatti colmati, per esigenze economiche prima che politiche, grazie ad un flusso organizzato di cittadini provenienti da altre province, con conseguente snazionalizzazione del Sudtirolo. Il gruppo etnico tedesco insomma, in un caso come nell´altro, era condannato dall´«accordo capestro». Data anche la guerra già iniziata in Europa, appariva forse più ragionevole procrastinare se non altro l´esecuzione della sentenza evitando fatti compiuti più o meno irrevocabili a breve scadenza. Ma la scelta, anche in ragione dell´intensa attività svolta sul posto dagli emissari nazisti provenienti da oltre Brennero e dai propagandisti locali dell´alternativa «pangermanista», fu dettata invece da una prevalenza degli impulsi emotivi basati sul ripudio della politica fascista di oppressione delle minoranze.

Per gli ospiti della struttura di Pergine «impediti» dalle carenze psicofisiche, l´accertamento della loro appartenenza al gruppo linguistico tedesco e, quindi, del diritto di voto, non aveva presentato difficoltà, grazie anche alla collaborazione del personale. Diversamente andarono le cose per quanto concerne la dichiarazione, prevista per ogni optante, di voler acquisire la cittadinanza germanica ed emigrare in Germania. Soltanto in singoli casi tale dichiarazione venne sottoscritta dai rappresentanti legali dell´optante; per lo più alla bisogna si prestarono, in violazione delle norme prescritte, i congiunti, ovvero il diretto interessato, non ragguagliato sulle conseguenze della sua firma ovvero non in grado di valutarle. Nell´ottanta per cento dei casi i malati psichici non si rendevano conto del significato e dell´importanza della firma loro richiesta, non solo per la dichiarazione di opzione ma anche per le domande accompagnatorie di concessione della nuova cittadinanza, rispettivamente di rinuncia a quella vecchia. Da parte italiana non vi fu insistenza sul rispetto formale della normativa concordata, nella consapevolezza che gli infermi dovevano seguire la sorte dei congiunti optanti per la Germania, un Paese in cui avrebbero dovuto ambientarsi meglio sia grazie alla lingua comune che alle strutture ospedaliere più avanzate. D´altro canto, Roma era lieta di potersi sbarazzare dell´onere economico fino allora sostenuto per l´assistenza dei ricoverati, provenienti in gran parte da famiglie indigenti. Quanto ai delegati germanici, l´obiettivo loro indicato da Berlino era quello di far lievitare al massimo il numero degli optanti per l´emigrazione, a dimostrazione del prestigio e della forza di attrazione esercitati sui «fratelli divisi» dal regime hitleriano. Per i dirigenti berlinesi non esisteva d´altro canto un problema economico; nelle alte sfere si sapeva perfettamente che i nuovi cittadini non avrebbero pesato a lungo sul bilancio nazionale. L´esecuzione del verdetto capitale pronunciato per decine di migliaia di pazienti nelle stesse condizioni ricoverati in istituti germanici doveva, infatti, essere questione di qualche mese per i nuovi arrivati. Della loro sorte non erano a conoscenza i delegati italiani mentre per quelli della controparte l´interesse alla consultazione altoatesina, al di là dei suoi aspetti propagandistici, era rappresentato principalmente dal contributo allo sforzo militare tedesco che i sudtirolesi «sani» sarebbero stati chiamati a fornire nell´immediato futuro.

Grafeneck La destinazione finale dei viaggi di trasferimento era il castello di Grafeneck nel Württemberg, sede originariamente di un ospizio per mutilati, storpi e minorati psicofisici, già di proprietà della «missione interna» evangelica e da poco passato sotto controllo statale: un istituto in posizione amena, alquanto isolato e circondato da un vasto appezzamento agricolo con un po´ di bosco.

A Grafeneck il regime aveva assegnato una funzione pionieristica nell´ambito del programma per l´eutanasia. L´istituto fu infatti il primo a dotarsi, per poter meglio assolvere il compito affidatogli, di una camera a gas e di un forno crematorio, dopo l´opportuna ristrutturazione del corpo centrale dell´edificio principale. Camera a gas e forno crematorio erano destinati a diventare simboli e puntelli di un potenziale distruttivo di massa della vita umana senza precedenti nella storia grazie al metodo industriale adottato. Come tutti i minorati destinati alla camera a gas di Grafeneck, i pazienti sudtirolesi e trentini conclusero il viaggio iniziato a Pergine all´istituto di Zwiefalten, che era il centro di raccolta e di smistamento delle vittime predestinate grazie al quale dovevano essere evitati ingorghi e ritardi alla stazione terminale, a 25 chilometri di distanza. Una sconvolgente testimonianza sulla situazione esistente a Zwiefalten nell´estate del 1940 è stata resa dalla psichiatra dott. Helene Volk, che aveva lavorato in quell´istituto qualche anno prima e che era tornata sul posto per visitare alcuni pazienti. Come riferisce Klee, essa fu profondamente turbata ed indignata per aver trovato la struttura tra sformata in un accampamento di infelici, tanto che si diede alla fuga per non dover sopportare più a lungo quel triste spettacolo.

Ankunft in Zwiefalten Pochi giorni dopo l´arrivo a Zwiefalten, 75 componenti del gruppo proveniente da Pergine (al quale erano stati aggregati cinque uomini e tre donne della Valcanale già ospitati al manicomio di Udine, 23 ospiti dell´istituto di Nomi e 30 ospiti della colonia agricola di Stadio in Alto Adige), furono trasferiti a bordo di autobus alla clinica neurologica di Schussenried, una cittadina poco distante. Qui però essi rimasero poche settimane finché il 6 luglio, come risulta dai registri, furono spostati in un´altra clinica, quella di Weissenau, alla periferia di Ravensburg. Qualche tempo dopo, altri quattro pazienti rimasti a Zwiefalten e colpiti da tubercolosi, si unirono ai loro compagni di sventura sistemati a Weissenau.

Tutti questi spostamenti provocano alcuni interrogativi. Se Zwiefalten, come capienza e come anticamera di Grafeneck, non era adatta ad ospitare la comitiva, perché non venne originariamente prescelta come destinazione immediata Weissenau, invece della seconda sosta a Schussenried? Se non si vuole accettare l´ipotesi di una situazione caotica, è lecito ritenere che i due «traslochi» successivi rientrassero nel disegno di avvolgere in una cortina fumogena l´«eutanasia» in atto.

Quanto al dirottamento da Zwiefalten è possibile che sia da attribuire ad un ripensamento sullo «status» degli optanti. Secondo la legge germanica sulla cittadinanza essa non poteva essere accordata ai malati psichici, ciò che provocò non pochi grattacapi di natura giuridica al competente ministero dell´interno. D´altro canto, forse i «perginesi» erano stati risparmiati non tanto perché avevano ceduto la terra avita, cioè la vecchia patria, per quella nuova, ma per evitare possibili contraccolpi sul piano interno se fossero trapelate, anche tramite i loro congiunti che avevano indossato l´uniforme della Wehrmacht, notizie sulla prematura fine dei pazienti.

Nel novembre 1940, sei mesi dopo, altri 112 pazienti sudtirolesi vennero fatti affluire a Schussenried, seguiti nel marzo 1942 da altri 68, tutti provenienti da Hall nel Tirolo, ove erano stati temporaneamente ammessi dopo che Pergine, alla data del 10 gennaio 1940, aveva perduto la competenza sugli optanti per il Reich. A Schussenried arrivarono però in tutto 292 persone, evidentemente provenienti da istituti tirolesi diversi da quello di Hall, fra le quali anche handicappati gravi, lungodegenti incurabili ed altri.

Secondo una lista nominativa pubblicata anni fa ad opera dello storico sudtirolese dott. Steurer, almeno 43 malati psichici sudtirolesi provenienti dal Tirolo e dal Vorarlberg finirono nell´istituto della morte di Hartheim, presso Linz. Egli precisò tuttavia che i dati relativi erano incompleti in quanto per ragioni di sicurezza alcune parti della documentazione erano state distrutte dai responsabili e poterono essere ricostruite soltanto parzialmente nel dopo guerra.

Nel corso del convegno svoltosi il 10 marzo 1995 a Bolzano, intitolato «Follia e pulizia etnica», l´ex primario di Schussenried, dott. Johannes May, ha sottolineato che tutti i pazienti ricoverati a Zwiefalten, Schussenried e Weissenau sfuggirono alle camere a gas ma non già agli stenti ai quali gli ospiti degli ospedali psichiatrici furono particolarmente esposti durante gli anni di guerra, con la conseguenza di un´elevata mortalità. Il dott. Michael von Cranach ha riferito su quattro ragazzi sudtirolesi vittime della sperimentazione di un nuovo vaccino antitubercolare.

Non è stato possibile comunque accertare il numero complessivo delle vittime sudtirolesi decedute durante il conflitto negli istituti del Terzo Reich, anche perché bisognerebbe tener conto del fatto che, in conseguenza delle opzioni, non pochi vennero deportati dalle loro case e dai loro paesi in Alto Adige dopo che da parte germanica era stata loro assicurata un´assistenza in ospedali del Reich, dai quali qualche settimana dopo pervenne invece la notizia del loro decesso. Si tratta insomma di un capitolo tenebroso che, ad oltre mezzo secolo di distanza, esigerebbe un approfondimento, come dovrebbe essere approfondito il capitolo della mancata «riopzione» per molti sopravvissuti a causa della mancanza, da parte italiana, della necessaria flessibilità per quanto riguarda i limiti prefissati in vista dell´adempimento delle formalità previste.

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